Il Punto. Sergio Blasi: Stabilizzare i lavoratori del 118 è giusto e conveniente, lo dicono i numeri |
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Scritto da Sergio Blasi
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Mercoledì 13 Maggio 2020 18:39 |
Stabilizzare i lavoratori del 118 è giusto e conveniente, lo dicono i numeri. E qualcosa, nella Asl di Lecce, inizia a muoversi! Nei giorni scorsi mi sono attivato per capire a che punto sia il processo di internalizzazione del servizio di emergenza-urgenza, a mio avviso determinante per elevare la qualità complessiva della sanità pugliese, anche alla luce dell’epidemia da Covid-19. E’ emerso che in seguito a un’assemblea dei soci di Sanità Service del 30 dicembre 2019, l’Asl ha dato mandato a Sanità Service di stabilizzare “con la necessaria rapidità” i dipendenti delle “organizzazioni profit” – nello specifico le ditte Ikebana e Meleleo - che operano sui territori di Casarano, Gallipoli, Scorrano, Ugento e Otranto. Il 17 aprile scorso Sanità Service ha risposto alla Asl con un piano dettagliato su modalità e costi di un’operazione di stabilizzazione che coinvolge in tutto 53 lavoratori, tra autisti e soccorritori. Nello specifico, Sanità Service fa sapere di essere pronta ad assumere 12 dipendenti a Otranto, 12 a Ugento, 12 a Casarano e 17 tra Gallipoli e Scorrano e di acquistare un’ambulanza a fronte delle quattro necessarie per coprire le aree coinvolte (tre mezzi sono già nella disponibilità dell’Asl). La stessa Sanità Service specifica che la stima dei costi per l’intera operazione, considerati gli oneri di carburante, formazione del personale, fornitura delle divise, servizio di lavanolo e acquisto dell’ambulanza, oltre ai costi di gestione dei mezzi e agli aspetti relativi alla gestione del personale, ammonterebbe a circa 1 milione 950mila euro l’anno a fronte degli attuali 2 milioni 93mila euro che la Asl spende per mantenere il servizio appaltato alle ditte Ikebana e Meleleo. Il risparmio stimato è dunque di oltre 140mila euro l’anno, ambulanza e relative attrezzature incluse. Ciò significa che ci avevamo visto giusto: internalizzare l’emergenza-urgenza non solo è possibile, ma anche conveniente. E va fatto subito. Ci sono tutte le condizioni (la relazione di Sanità Service lo dimostra) per garantire a centinaia di lavoratori le certezze occupazionali consone a chi riveste un ruolo così delicato per la salute di tutti noi, e ai pugliesi un servizio all’altezza di questo nome. Pertanto invito nuovamente il presidente Michele Emiliano e tutte le Asl pugliesi ad affrontare e risolvere con pragmatismo la situazione del 118, anche perché, a fronte dei 53 operatori in questione per cui si è di fatto avviato l’iter che conduce alla stabilità (ora però bisogna accelerare!), ve ne sono tanti altri che da anni attendono risposte, soprattutto quelli che oggi lavorano tra precarietà e sfruttamento per le varie associazioni no profit (o presunte tali) che affollano il settore e di cui difficilmente sentiremo la mancanza. Insomma, la strada che conduce alla qualità è ancora molto lunga, ma assolutamente percorribile. Procediamo con velocità e convinzione per portarci in casa il servizio di emergenza-urgenza, risparmiando e garantendo stabilità ai lavoratori del 118.
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IL PUNTO |
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Scritto da Tratto da lavoce.info
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Mercoledì 22 Aprile 2020 15:49 |
Scelte operative e modelli di sanità diversi tra regioni confinanti hanno assegnato alla Lombardia il triste record di morti per Covid-19. Intanto il governatore Fontana – in concorrenza con il governo centrale – sforna una app per tracciare la salute dei lombardi, contro un virus che non vede confini. Per capire meglio i dati sulla mortalità, bene utilizzare anche quelli dell’Istat. Soprattutto per quanto riguarda le aree più colpite. Rimane che l’inaffidabilità dei dati impedisce di stabilire il reale numero dei contagiati. Per ridurre i rischi della fase 2 servirebbe un monitoraggio su un campione della popolazione. E comunque a pesare su quando riaprire e quali attività economiche ci sarà la ricerca di un equilibrio tra i costi per salvare vite umane e i costi del blocco. E sempre prima di riaprire andrebbero valutati con precisione gli effetti del lockdown sulla diffusione del coronavirus, anche se in assenza di dati dettagliati. Sensibili gli effetti sociali dell’emergenza. Con la scusa della crisi, torna sotto attacco, in Italia, il diritto delle donne di interrompere la gravidanza e si riaffaccia il rischio di tornare agli aborti clandestini. E anche se, da casa propria, si offrono lezioni online a tutti gli studenti, una loro effettiva fruizione che non allarghi le esistenti disuguaglianze formative dipende dal background familiare. La Corte Ue ha condannato tre paesi che hanno evitato la redistribuzione dei profughi. Atto poco più che simbolico ma proprio per questo importante. |
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Roma. Una lettura costituzionale di D.L. e d.P.C.M. |
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Scritto da Alessandro Candido
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Lunedì 06 Aprile 2020 10:46 |
Diventa oramai sempre più difficile enumerare i provvedimenti che da circa due mesi il governo Conte ha adottato per fronteggiare la gravissima emergenza da COVID-19. Sono numerosi infatti i decreti del Presidente del Consiglio che hanno imposto alle libertà dei cittadini – prima tra tutte, quella di circolazione – misure restrittive che non hanno precedenti nella storia repubblicana. Si tratta di atti normativi di rango secondario che inizialmente si sono radicati sul d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 che, al fine di attuare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art. 1), ha previsto l’emanazione di “uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri” (art. 3). Tra questi si collocano i d.P.C.M. 8, 9, 11 e 22 marzo 2020, miranti – attraverso un divieto penalmente presidiato – a evitare temporaneamente “ogni spostamento delle persone fisiche”, salvo che per “comprovate esigenze lavorative”, “situazioni di necessità”, ovvero “motivi di salute”, da giustificare tramite autodichiarazione.
I d.P.C.M. in questione contengono una serie di limitazioni impattanti negli ambiti lavorativo, scolastico, culturale, ludico-sportivo, religioso, sanitario, che incidono su tutti i rapporti civili, etico-sociali, economici e politici, comportando di fatto una sospensione delle libertà costituzionali in nome dell’emergenza. Quest’ultima, come osservava Santi Romano riprendendo un principio già noto alla tradizione romanistica, in situazioni di necessità costituisce la “fonte prima ed originaria di tutto quanto il diritto, in modo che rispetto a essa, le altre sono da considerarsi in certo modo derivate” (S. Romano, Sui decreti legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio-Calabria, in Riv. dir. pubbl., n. 1/1909, p. 260).
Con il d.l. 25 marzo 2020 n. 19 il governo ha poi abrogato il d.l. n. 6 del 2020, elencando (con maggiore puntualità rispetto a quest’ultimo) le misure restrittive delle libertà individuali che i successivi d.P.C.M. potranno disciplinare e, al contempo, fornendo copertura agli atti secondari fino a questo momento adottati.
Ciò premesso, ci si chiede se lo strumento del decreto legge sia sufficiente a fungere da delega in bianco idonea a consentire al capo del governo di adottare atti di normazione secondaria in deroga alla legge, senza passare per il controllo del Parlamento (che, invero, non è stato coinvolto nemmeno nella fase di dichiarazione dello stato di emergenza). Sebbene sia opportuno che, in virtù delle riserve di legge contenute nella Costituzione, la limitazione delle libertà passi sempre da una fonte primaria, la risposta può essere affermativa, ove si leggano i d.P.C.M. adottati – al di là della loro veste formale – alla stregua dei provvedimenti di cui al Codice di protezione civile (il d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1). Quest’ultimo, nei casi – come quello di specie – di “deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale” (art. 24), autorizza l’adozione di ordinanze di protezione civile, “in deroga ad ogni disposizione vigente” (art. 25); senza tra l’altro dimenticare che lo stesso Presidente del Consiglio “detiene i poteri di ordinanza in materia di protezione civile” (art. 5). Del resto, l’art. 2 dell’abrogato d.l. n. 6 del 2020, nella parte in cui disponeva che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”, consentiva di rinviare a ulteriori competenze, previste altrove.
Quanto poi all’adozione di misure che influiscono sul movimento della popolazione, il giudice delle leggi in diverse occasioni ha ammesso tale possibilità, dato che siffatte limitazioni possono trovare giustificazione “in funzione di altri interessi pubblici egualmente meritevoli di tutela” (Corte cost., n. 66 del 2005), a patto che “rispondano a criteri di ragionevolezza” (Corte cost., n. 264 del 1996).
Rinviando un compiuto giudizio sull’operato del governo soltanto al momento in cui l’emergenza sarà terminata, la pressione senza precedenti esercitata sulle libertà costituzionali potrebbe giustificare una torsione del sistema delle fonti, superando lo scoglio del giudizio di ragionevolezza, a condizione che abbia carattere temporaneo e che si renda più intellegibile: la drammatica esperienza in atto dimostra quanto sia importante la chiarezza del diritto. Alcune norme di controversa esegesi, unitamente al concitato nonché confuso susseguirsi di notizie prima dell’emanazione dei provvedimenti, hanno spinto migliaia di persone ad abbandonare le zone focolaio, richiamando alla mente aneddoti di manzoniana memoria. Uno degli aspetti sui quali intervenire è quello della comunicazione legislativa, che non deve precedere, ma semmai seguire l’emanazione degli atti normativi, specie se destinati ad avere un impatto immediato sul governo dell’emergenza. Connessa a tale profilo, e certamente da migliorare è la tecnica normativa, che si inscrive in quel sacrosanto principio di civiltà giuridica che è la certezza del diritto.
Un’ultima considerazione. Nel dramma di questo tempo si intravede un tiepido raggio di sole (ex malo bonum, direbbe Sant’Agostino): un nuovo umanesimo e un ritorno a quella carità cristiana che è soprattutto in grado di flere cum flentibus. Bisogna ripartire proprio dall’etica della solidarietà, più volte richiamata dal Pontefice lo scorso 27 marzo nel surreale silenzio assordante di Piazza San Pietro, percorrendo quel sentiero a tratti tortuoso che conduce alla rigenerazione valoriale della società.
Alessandro Candido Professore a contratto nell’Università degli Studi di Milano Bicocca e dottore di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano |
L’insegnamento di Dante e l’identità nazionale |
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Scritto da Rosario Coluccia - tratto da Nuovo Quotidiano di Puglia
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Mercoledì 25 Marzo 2020 12:33 |
Di mestiere faccio il linguista. Viviamo tempi bui che non dureranno poco (non giorni né settimane, purtroppo). In queste condizioni, può apparire futile parlare di argomenti che non siano legati all’attualità giornaliera del coronavirus, a quello che ogni giorno ascoltiamo, vediamo e leggiamo attraverso i media, alle conseguenze che la pandemia genera nei nostri pensieri e nei nostri comportamenti, alle molte domande senza risposta che affollano la nostra mente. Ma no, forse possiamo non rassegnarci alla fatalità della contingenza. Forse possiamo reagire alle difficoltà attuali non isolandoci nella paura senza freni di chi non vuole vedere o sapere (credendo ingenuamente che questo comportamento possa costituire una sufficiente difesa dal rischio) o agendo nel modo irrazionale di chi nega la virulenza del contagio e va in giro senza necessità, incurante degli altri e accampando le motivazioni più strane. In un articolo precedente ho definito questi ultimi criminali irresponsabili, chi agisce così mette a repentaglio la salute altrui, in tanti mi hanno scritto condividendo. Forse invece possiamo (dobbiamo?) reagire all’incubo che stiamo attraversando, facendo ricorso agli esempi che vengono dalla nostra storia e dai grandi del passato, cercando spunti di riflessione nelle opere che narrano e angosce che altri prima di noi hanno fronteggiato, vivendo in periodi difficili come quello che ora viviamo noi. Aiuta a riflettere sulla situazione attuale la lettura (o l’ascolto, ci sono ottime versione orali nella rete, anche gratuite) dei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi. Manzoni vi riscostruisce la vicenda della peste che colpì Milano nel 1630. «La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia», comincia così il primo dei due capitoli del romanzo che abbiamoappena ricordato. Il racconto manzoniano è una descrizione realistica della malattia, tragedia terrena in cui comportamenti irrazionali contribuiscono a facilitare la diffusione del morbo. Li abbiamo vissuti anche noi, eccone alcuni. La presunzione (alle prime notizie) che si tratta di qualcosa proveniente da Paesi stranieri e lontani, che non potrebbe mai raggiungerci; la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero (quando il contagio invece coinvolge anche noi), a cui unicamente addebitare (quasi con sollievo) la causa dell’epidemia; la non curanza di chi non vuol sentir parlare di pericolo e se la prende con coloro che mettono la collettività sull’avviso; lo scontro, a volte aspro, tra le autorità politiche, che in alcuni casi appare dettato da mera propaganda elettorale; il disprezzo per gli esperti, peraltro a volte essi pure in disaccordo di fronte al male sconosciuto; le voci incontrollate; i rimedi incerti o improvvisati; la razzia dei beni di prima necessità. Per capirne di più, qualcuno potrebbe utilmente rileggere il Decameron di Boccaccio, le novelle che la «onesta brigata di sette donne e di tre giovani» si racconta, nel tentativo di sfuggire alla «mortifera pestilenza» del 1348, isolandosi dai concittadini, restando in casa (come anche noi tutti dovremmo fare). Chi può, legga l’Introduzione a quell’opera magnifica, nella quale Boccaccio descrive i comportamenti individuali e collettivi dei fiorentini di fronte alla mortalità che non si sapeva fronteggiare. Le prime manifestazioni del morbo «nelle parti orientali»; l’ampliamento «verso l’Occidente»; il mutare delle manifestazioni esterne dell’infezione; le incertezze della medicina di fronte a una malattia sconosciuta; le modalità del contagio; i variabilissimi comportamenti umani, dalla sobrietà estrema fino alla sconsideratezza; l’isolamento degli ammalati e la solitudine estrema dei morti. Tante cose sono identiche a quel che accade oggi, perché gli uomini ripetono sempre sé stessi. Non arrivò a conoscere la peste che nel 1348 avrebbe devastato la sua città il fiorentino Dante, esule e peregrinante in varie località italiane, morto a Ravenna il 13 o 14 settembre 1321, probabilmente dopo essere appena rientrato nella città romagnola da un’ambasceria a Venezia. Dante scomparve verosimilmente a causa di un’infezione broncopolmonare, secondo una diagnosi tentata qualche anno fa a distanza di secoli, sulla base di poche e non dettagliate informazioni pervenute fino a noi. Ma non è per tale coincidenza di carattere medico (infausta in questo momento) che dobbiamo ricordarlo. La diffusa espressione che definisce Dante “padre della lingua italiana” è, semplicemente, la verità. Il fascino delle sue opere (in particolare la Divina Commedia, ma anche altre molto celebrate) e la lingua da lui elaborata, continuata da altri autori di estrazione fiorentina, conducono nel giro di poche generazioni all’unificazione linguistica d’Italia, al livello letterario più alto. Poeta che appartiene al mondo, Dante fonda la nostra identità nazionale. La percezione più vistosa dell’enorme influenza che la Commedia ha esercitato sulla lingua italiana si ha considerando il numero di frasi celebri di origine dantesca, radicate nella nostra lingua al punto da dar luogo a espressioni idiomatiche o veri e propri proverbi, spesso usate in forme del tutto svincolate dal contesto originario. Tante le frasi dantesche che usiamo senza ricordarne la provenienza: «e ’l modo ancor m’offende », «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse», «lasciate ogni speranza o voi che entrate», «non ti curar di lor, ma guarda e passa», «sanza ’nfamia e sanza lodo», «dolenti note». Per celebrare degnamente, in Italia e in tutto il mondo, i 700 anni dalla morte di Dante (il settecentenario ricorre nel 2021), il Governo e il Parlamento, su proposta di istituzioni, accademie, giornali, intellettuali, professori, hanno istituito a partire da quest’anno il “Dantedì”. Il nome è nato in una conversazione telefonica tra Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, e Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera; la data scelta è quella odierna, il 25 marzo, giorno in cui comincia il viaggio ultraterreno di Dante, che attraverso l’Inferno e il Purgatorio raggiunge il Paradiso. Pur in questi momenti difficili, celebriamo degnamente il nostro poeta più grande, che il mondo venera. Uniti in modalità digitale, docenti e studenti leggeranno interi canti della Commedia nella mattinata del Dantedì; terzine e versi danteschi saranno recitati dai cittadini dai balconi alle 18, accogliendo una proposta di Francesco Sabatini, rilanciata da varie istituzioni culturali; l’Accademia della Crusca ha invitato personalità che operano nella società, nell’università, nella cultura, nell’informazione, nell’economia a produrre autonomamente un video (di due minuti) in cui ognuno presenta un verso o una terzina dantesca a cui si sente legato (i video saranno inseriti oggi nel canale ufficiale YouTube e nella galleria del sito web dell’Accademia e saranno diffusi sulle pagine ufficiali Facebook, Twitter e Instagram). E molte altre iniziative. Interprete dei complessi sentimenti che attraversano la nostra mente e la nostra anima, vero e proprio stigma di umanità, Dante nella Commedia ha mostrato in maniera mirabile la capacità dell’umanità di uscire da una situazione terribilmente difficile, che «fa tremar le vene e i polsi», e di arrivare «a riveder le stelle». Anche noi ci riusciremo, ne saremocapaci.
Prof. Rosario Coluccia
Università del salento |
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